Piero Falchetta

La misura dipinta. Rilettura tecnica e semantica della veduta di Venezia di Jacopo de' Barbari

in "Ateneo Veneto", 178, Venezia 1991, pp. 273-305


Sostanziale e profonda unitarietà compositiva. Carattere esplicitamente sperimentale. Questi due dati - il primo testuale e percettivo, il secondo derivabile senza difficoltà dal confronto fra il capolavoro del de' Barbari e la produzione cartografica contemporanea - sembrano precedere, e al tempo stesso contenere riassumendoli, gran parte degli interrogativi e dei problemi discussi nella ricca e ormai già storica bibliografia dedicata alla celebre veduta di Venezia dell'anno 1500 e al suo autore nota. In questa non ha tuttavia ancora trovato piena risposta un quesito di particolare importanza, e cioè quello che riguarda il punto di discontinuità che l'opera rappresenta sia all'interno della storia della cartografia urbana medievale e rinascimentale, sia per quanto concerne le conoscenze odierne sulle tecnologie del rilevamento topografico nel Quattrocento, sia, da ultimo e più in generale, per l'interpretazione dei possibili significati della veduta, espliciti o impliciti che siano.

Tale discontinuità è imperniata su - e originata da - un dualismo che si può cercare di definire in questo modo: la veduta è un inventum che emerge quasi di colpo nel panorama della produzione contemporanea, e in maniera pressoché irrelata, non citando, se non marginalmente, nessuna auctoritas, né alcuna delle precedenti esperienze figurative in questo campo. Ma anche: la veduta è un'inventio di tale forza innovatrice da costituire, da un lato, un modello ineludibile per tutti coloro che si cimentarono dopo il de' Barbari nella rappresentazione della città lagunare in una veduta a volo d'uccello: è sufficiente una semplice occhiata alle piante di Matteo Pagan (1562), Paolo Forlani (1566), Franz Hogenberg (1572), Bernardo Salvioni (1592) e Giacomo Franco (1597) per comprendere quanto queste debbano al modello barbariano - e quanto ne siano tuttavia irrimediabilmente lontane. D'altro lato nessuno, fino alla veduta di Matthäus Merian (1638) - a voler essere generosi - si mise più in "concorrenza" esplicita con la pianta del de' Barbari, che costituiva forse, per impegno compositivo e grandiosità della rappresentazione, un termine di confronto troppo avanzato.

Queste considerazioni conducono all'individuazione di un carattere precipuo della veduta, e cioè al suo imporsi, in prospettiva storica, come unicum difficile da interpretarsi in quanto dotato di un elevatissimo quoziente di autosufficienza, e di fronte al quale non resterebbe da praticare, ubi maior, che l'esercizio variamente modulato dell'ammirare e dell'interrogare.

Avvertito, ma forse non abbastanza convinto o consapevole, della sconnessura storica rappresentata dall'opera, Schulz ha tentato di risolvere tale discontinuità con l'affermare - dopo aver dimostrato l'impossibilità che essa sia il frutto di un programma cartografico di tipo scientifico - che si tratta di un'opera d'arte nota.

Consegnata così a un ambito squisitamente iconologico ed estetico, la veduta del de' Barbari diventa, nell'analisi di Schulz, il punto di arrivo di un itinerario figurativo retorico, nel quale essa rappresenta il vertice di una sofisticata tecnica celebrativa ed encomiastica di tradizione medievale espressa tuttavia secondo un intendimento e una sensibilità già pienamente rinascimentali nota. Sia chiaro: è assolutamente vero che la pianta celebra la fama di Venezia, come è vero che si tratta, senza possibilità di dubbio, di un'altissima opera d'arte. Ma questo dovrebbe essere punto di partenza anziché, come per Schulz, d'arrivo, in quanto restano in questa conclusione irrisolti i problemi sollevati dal dualismo cui si accennava prima.

Lettura più sensibile sembra quella di Pignatti, il quale, nel rilevare come la grande unitarietà e omogeneità della veduta non possano essere ricondotte al solo elemento artistico, si è pronunciato senza esitazioni per un'"origine strettamente cartografica della pianta" nota, ovvero per una dimensione progettuale ad essa sottesa che sia in grado di motivarne in modo più credibile la riuscita. Tuttavia, l'ipotesi sulla possibile tecnica di rilevamento che egli suggerisce (in sintesi: rilevamento planimetrico della città e dei suoi edifici ad opera di un gruppo di "pertegadori e dessegnatori"; passaggio dalla pianta ortogonale all'elevazione, con successiva proiezione stereografica delle costruzioni; trasferimento del disegno panoramico così ottenuto sul legno da incidere) è stata messa in dubbio da Schulz con diversi argomenti, fra i quali si ricordano quelli che insistono sugli "errori" nel disegno degli edifici e sulle numerose omissioni che si riscontrano in diversi punti: queste sarebbero infatti assai poco spiegabili nel caso in cui la carta fosse stata composta in base a un rilevamento planimetrico preliminare che pare comunque, nel caso di Venezia, di troppo difficile realizzazione nota.

Ci si trova a questo punto in un'apparente impasse: la domanda che più conta nell'ambito degli studi cartografici - al quale il presente studio vuole innanzitutto riferirsi - e cioè come sia stata composta la veduta, non trova infatti risposta soddisfacente né nell'ipotesi del rilevamento planimetrico, come si è appena visto, né, per contro, nell'ipotesi avanzata da Schulz (assemblaggio di una serie di vedute parziali riprese dai campanili in rapporto a un "modello", forse ortogonale, di riferimento: e ciò, soprattutto, escludendo il ricorso a una qualsiasi tecnica di rilevamento, vuoi sul piano, vuoi a distanza: la pianta non sarebbe quindi in alcun modo il risultato di un progetto cartografico scientificamente condotto); quest'ultima ipotesi si scontra infatti con l'omogeneità con la quale i singoli dati topografici sono rappresentati nella veduta, omogeneità che sottintende un'unitarietà di stesura che va ascritta non soltanto all'idea artistica unificante bensì anche a una tecnica coerente e uniforme di trascrizione di ciascun dato nel disegno. Le pagine che seguono vogliono cercare di superare tale impasse, e sono perciò dedicate parte al tentativo di trovare una risposta soddisfacente per quel come, e parte alla riflessione su alcuni significati, intrinseci ed estrinseci, che si possono estrarre dalla veduta proprio a partire dalle indicazioni ottenute sulla tecnica della sua composizione.


La storia delle conoscenze teoriche, delle pratiche e delle tecnologie di misurazione delle distanze non astronomiche prima del Cinquecento è tutta contenuta in un capitolo che appare assai breve e lacunoso, soprattutto quando lo si consideri nella prospettiva assai più ampia della storia complessiva delle conoscenze matematiche, geometriche, astronomiche e tecnologiche nel periodo che va all'incirca dal secolo XIII fino alla fine del XV nota.

Diverse sono le ragioni che si possono individuare per spiegare tale scarsità di informazioni. Se vi sono infatti, da un lato, testimonianze sparse sull'impiego di tali tecniche e strumentazioni in età medievale sia in ambito architettonico, che marinaresco, che, ancora, in quello delle misurazioni catastali, quelle conoscenze, a causa del loro carattere eminentemente "pratico" - non facente cioè parte, se non marginalmente, di una tradizione scritta - si sottrassero a una codificazione di tipo scientifico, e sopravvissero, nei loro progressivi perfezionamenti, grazie al semplice tramandarsi di uso in uso.

Dall'altro lato, quando queste erano il frutto di un'elaborazione colta - soprattutto accademica - impedimenti di altra natura ne ritardarono e ne limitarono la diffusione nota. Tali impedimenti possono essere iscritti nell'ordine delle seguenti ragioni: la prima, e più ovvia, riguarda la scarsa circolazione, prima dell'avvento della stampa, di opere dell'antichità o del passato meno remoto - come ad esempio gli scritti di Roberto Anglico nota - contenenti indicazioni e informazioni precise sull'argomento. In secondo luogo vi è il fatto che tali conoscenze, quando erano elaborate in ambienti colti, lo erano soprattutto a opera di matematici e astronomi ai quali di ben diversa importanza appariva, se confrontata con la superiorità "filosofica" dei loro studi sulla struttura del cosmo, quella specie di sottoprodotto - oggi si direbbe ricaduta tecnologica - costituito dall'applicazione in sede mensuratoria dei principi sovrani della geometria e della matematica.

"Ludi mathematici" e "cose giocondissime" - che diventano nell'edizione del Bartoli "piacevolezze matematiche" - sono per Leon Battista Alberti le tecniche per la misurazione delle distanze che egli analizzò in uno scritto composto verso il 1450 e che il Bartoli, autore a sua volta di un famoso trattato cinquecentesco sull'argomento, pubblicò nel 1568 nota. "Iucundissimam partem Astronomices" viene definita la misurazione delle distanze nei Problematum del matematico Santbech nota. "Alia minora instrumenta [...] ad usum vulgarem quotidianum": così, ancora nel 1655, il Gassendi classifica gli strumenti di misurazione delle distanze - fra i quali quelli non ad uso esclusivamente astronomico - costruiti dal Regiomontano e dallo stesso riuniti a Norimberga nota. Si trattava cioè pur sempre di "giochi" e "piacevolezze", la cui comprensione, anche se riservata a pochi, era innanzitutto ragione di "diletto, sì in considerare, sì ancora in praticarle e adoperarle" nota.

Non c'è un gran bisogno, dopo questi spunti, di ulteriori spiegazioni per comprendere quale posizione occupassero tali tecniche nella gerarchia della cultura scientifica del tempo; né, d'altra parte, il trascorrere dei secoli è riuscito a ristabilire pienamente la prospettiva epistemologica all'interno della quale è da valutare l'importanza che quelle tecniche e quegli strumenti ebbero nello sviluppo della tecnologia occidentale - e ciò anche tenendo conto della considerazione sempre maggiore che gli storici della scienza contemporanei accordano a quello che, secondo la definizione ripresa da Klein, è stato definito "artigianato superiore" nota. Anche ai giorni nostri, infatti, tecniche e strumenti precinquecenteschi della misurazione topografica vengono iscritti, senza quasi distinguerli da quelle, fra le tecniche della misurazione astronomica, con il risultato di rimpicciolire assai il posto che ad essi spetterebbe in questo specifico campo del sapere nota. Ed è proprio in base a tali elementi - vuoi storici vuoi critici - nonché dal riscontro della limitata circolazione, per di più extraeditoriale, che la trattatistica sulla misurazione delle distanze ebbe prima del secolo XVI, che Schulz può affermare senza eccessivi dubbi che la pianta del de' Barbari non può essere stata disegnata per intervento di una qualche tecnica di rilevamento a distanza nota.

In realtà tali tecniche hanno una lunga storia, che è però, come si accennava prima, documentata in modo assai frammentario e discontinuo. Senza voler risalire alle tecniche mensuratorie del mondo romano - delle quali il Medioevo smarrì, secondo Harvey nota, quasi del tutto la memoria - o addirittura a quelle dei Caldei e degli Egiziani citate da Valturio nota, la traccia di questo particolare itinerario può essere ripresa con una certa sicurezza a partire dalla riscoperta, nei secoli XII e XIII, dei testi scientifici dell'antichità classica, riscoperta avvenuta anche grazie alla mediazione più o meno diretta dei trattatisti arabi.

Per quel che riguarda le conoscenze teoriche (leggi essenzialmente matematiche) sulle quali quelle tecniche erano basate, è inevitabile la citazione di scritti quali gli Elementa geometriae di Euclide nota, le opere di Archimede nota con i relativi commenti di Eutocio di Ascalone, l'Almagesto nota (nel quale erano contenute anche le descrizioni di diversi strumenti per le misurazioni astronomiche, come ad esempio il triquetrum o l'astrolabio armillare) e la Geographia nota di Tolomeo; di pari importanza, per l'elaborazione dei calcoli necessari alle misurazioni astronomiche e, in seconda istanza, terrestri fu la riscoperta degli scritti arabi di trigonometria, quali il De figura sectore di Thabit ibn Qurra nota, il De motu stellarum di Al-Battani nota, o il De astronomia libri IX di Jabir ibn Aflah nota, nonché di molte altre opere matematiche, geometriche e astronomiche provenienti sia dalla tradizione greco-classica, sia da quella araba nota. Dall'altro lato, per quel che riguarda le conoscenze pratiche (leggi tecniche e tecnologiche) relative, in questo caso, alla misurazione delle distanze non specificamente astronomiche, la diffusione del sapere in età medievale è, come ripetuto più volte, assai meno documentabile. L'impiego di strumenti per la misurazione indiretta delle distanze e delle altezze, quali ad esempio il baculo o bastone di Giacobbe, l'asta d'ombra o gnomone, gli specchi, l'astrolabio, ed altri da questi derivati, è sicuramente continuato per tutto il Medio Evo nota; lo si desume in modo più o meno diretto da scritti quali la Geometria di Gerberto di Aurillac (poi Papa Silvestro II, ca. 930-1003) nota; o il Liber embadorum di Abraham Bar Hiya (inizio XII secolo); o la Practica geometriae di Leonardo Pisano (Fibonacci), del 1220-21, la cui Septima distinctio è dedicata a "de inventione altitudinum rerum elevatarum et profunditatum atque longitudinum planitierum", vale a dire ai diversi metodi per la misurazione indiretta di altezze e distanze nota; o il già citato De astrolabio di Roberto Anglico; o il De ingeneis del Taccola, del 1432, che spiega, illustrandolo con disegni, l'uso mensuratorio dell'asta d'ombra e dell'astrolabio nota; o ancora da altre opere come il De trigono balistario e il Metrologum de pisce, cane et volucre del veneziano Giovanni Fontana nota, che, pur guardando più al medioevo magico che non alla scienza dei matematici umanisti, si possono ugualmente collocare in questa tradizione.

L'insieme di queste tracce, nonché delle molte altre sulle quali si è per brevità sorvolato, non basta tuttavia per affermare - e con ciò si torna all'oggetto principale di questo studio, la veduta del de' Barbari - né tantomeno per comprovare la possibilità che tali conoscenze, dopo essere state almeno in parte codificate nei loro principi, abbiano potuto, già alla fine del XV secolo, essere organicamente applicate sia in fase di elaborazione progettuale sia in fase di misurazione a mezzo di strumenti specificamente adatti allo scopo, per un'impresa di rilevamento topografico di grande complessità e difficoltà quale sarebbe stata il rilievo della città di Venezia e del suo tessuto urbanistico.

Un lavoro di questo genere avrebbe infatti richiesto il concorso esplicito di elementi diversi, quali l'elaborazione di una teoria - o quanto meno di una precettistica - semplice ma precisa alla quale fare riferimento; l'ideazione e la costruzione di uno o più strumenti ad hoc; la presenza accanto ai matematici di "artigiani superiori" capaci di recepire le loro indicazioni teoriche e di perfezionarne l'applicazione tecnica; l'esistenza di laboratori in grado di produrre strumenti sufficientemente affidabili; la diffusione di tali conoscenze ed esperienze in un milieu scientifico-tecnico-artistico non troppo ristretto e disponibile a interessarsi di questa materia; una capacità produttiva ed economica fuori dall'ordinario.

La gran parte degli studiosi è concorde nell'affermare che una simile concorrenza di fattori materiali e di motivazioni culturali non si poté verificare fino al secolo XVI iniziato, quando tali tecniche - codificate dagli studi di Gemma Frisio, Bartoli, Tartaglia e molti altri - trovarono una precisa trattazione a partire dalle nuove necessità introdotte nella pratica guerresca dall'uso delle bocche da fuoco a lunga gittata, e cioè dal bisogno di conoscere la topografia esatta di un determinato luogo e di saperne calcolare con sistemi di misurazione indiretta le distanze e le posizioni.

In realtà si può affermare che già intorno alla metà del secolo XV erano maturate conoscenze scientifiche e tecnologiche abbastanza sviluppate e perfezionate da renderne possibile un'eventuale applicazione in fase di rilevamento topografico; è perciò opportuno riconsiderare, alla luce di tali elementi e prima di escluderlo troppo sbrigativamente, la possibilità che la pianta del de' Barbari sia stata composta grazie all'apporto sostanziale di quelle conoscenze.


Il trattato del Bartoli sulla misurazione delle distanze si apre con alcune indicazioni sul modo di costruire e di impiegare uno strumento noto con il nome di quadrante o quadrato geometrico. Scrive dunque il Bartoli: "Ancorché le distanzie si possino ritrouare per uarie uie, et mediante diuersi instrumenti, de quali racconteremo parte. Il quadrante nientedimeno è, per queste attioni, instrumento più di tutti gli altri accomodatissimo" nota. All'incirca negli stessi anni il matematico Santbech, nell'esaltare il grande progresso che gli strumenti già appartenuti al Regiomontano - e che erano stati acquisiti dalla città di Norimberga nel 1522 per essere messi a disposizione di tutti gli studiosi - avevano consentito alla scienza dell'osservazione astronomica e della misurazione delle distanze, si sofferma in particolare sul quadrato geometrico, e lo definisce "facillimum, simplicissimum ac certissimum instrumentum", in quanto il suo impiego è di gran lunga più agevole di quello di tutti gli altri nota.

Ma quale è l'origine di questo strumento così versatile e particolarmente adatto all'"experientia" - e non solo alle "demonstrationibus" scolastiche - in quanto semplice e preciso al tempo stesso? La prima attestazione certa è quella contenuta nella già ricordata Practica geometriae di Leonardo Pisano; questi, dopo aver anch'egli lodato la precisione e la facilità d'impiego del quadrato nota, fornisce alcune brevi istruzioni sul modo di fabbricarlo: " ... et in punto .a. figi filum cum quodam plumbino, quod pendeat extra arcum .bcd.; et diuidam utrumque latus [...] in partes 12 uel 60 equales, et notabo ipsas partes omnes, una in similibus instrumentis notate inueniuntur: et sic perfecta est forma quadrantis" nota.

L'opera del Pisano, che è del 1220-21, circolò con ogni probabilità piuttosto largamente, in particolare nell'ambiente didattico, in versioni ridotte e volgarizzate, quale testo di base per l'apprendimento della geometria. Bisogna tuttavia arrivare fino al 1442 per incontrare ancora notizia della Practica e del modo in essa descritto di costruire e impiegare un quadrato geometrico. In quell'anno infatti il cittadino pisano Cristofano di Gherardo di Dino compose una Pratica di geometria derivata senza dubbio dall'opera del Fibonacci nota. E dal confronto del breve passo dedicato allo strumento di misurazione da Cristofano con quelli citati dal Pisano risultano alcuni motivi d'interesse.

Scriveva dunque Cristofano: "Se la larghessa overo lunghessa d'alcuno piano vuoj sapere, ordina uno quadrato di legnio overo di rame [...] et tanto quanto è maggiore tanto è meglio [... ] Et poi eghualmente questo quadrato divide dal lato [...] in quante parte vuoj, o vuoj in 30 o vuoj in 40, o in più o in meno sighondo che ctu vuoj ... " nota. Va innanzitutto notato l'accento posto da Cristofano sulla misurazione di lunghezze e larghezze anziché, come nel Pisano, delle altezze; vi è poi l'indicazione sulla fattura del quadrato - "di legnio overo di rame" - e sulla sua precisione - "tanto quanto è maggiore tanto è meglio" - tutte e due assenti dal testo del Pisano, e che derivano perciò da una tradizione diversa. Si tratta con ogni probabilità di una tradizione d'uso, quella dalla quale Cristofano ha attinto queste indicazioni supplementari; egli apparteneva infatti al ceto popolare, e non poteva certo, un quarto di secolo prima dell'invenzione della stampa, disporre dei trattati che circolavano, manoscritti, negli ambienti eruditi e accademici del suo tempo nota.

Un altro piccolo indizio sulla diffusione in contesti diversi delle tecniche relative al quadrato, è quello fornito da una xilografia del 1472 che illustra la parte finale del libro secondo del De re militari di Valturio nota; la figurina mostra la tecnica di misurazione dell'altezza di una torre per mezzo di uno strumento - del quale il testo non parla - assai simile a un archipendolo notache viene tuttavia impiegato secondo le modalità d'uso del quadrato.

Vi è, da ultimo, l'importante attestazione di Gregor Reisch, di pochi anni successiva alla pianta di de' Barbari; nell'edizione del 1508 della sua Margarita philosophica, Reisch, trattando degli strumenti per la misurazione delle distanze e delle altezze, illustra la tecnica del quadrato geometrico e vi affianca un'immagine dello strumento, forse la prima che sia stata pubblicata nota.

Le poche notizie fin qui riportate sono comunque sufficienti a far intendere come la circolazione di tali conoscenze abbia proceduto lungo un itinerario che non si è mai interrotto del tutto; è anche vero, però, che l'ipotesi di un loro impiego a fini assai più sofisticati e complessi di quanto non lo fosse la semplice misurazione dell'altezza di un edificio presuppone un ulteriore passaggio, e cioè l'elaborazione di tali pratiche e tecniche da parte di un ambiente colto ed evoluto, capace sia di perfezionarle al massimo, sia di diffonderne la conoscenza, sia di pensarle in funzione di un'impresa tanto impegnativa quale sarebbe stata il rilevamento topografico di una città.

Il primo e certo fondamentale passo in questa direzione venne con ogni probabilità compiuto intorno al 1455, anno in cui il celebre matematico e astronomo viennese Georg Aunpeck von Peuerbach notamise mano, con l'aiuto del suo allievo e collaboratore Giovanni Regiomontano, a un modello perfezionato di quadrato geometrico nota. Alcuni anni più tardi, nel 1460, egli inviò un esemplare dello strumento, insieme a un trattatello nel quale ne veniva spiegato l'uso, a Giovanni Vitéz, una delle personalità di maggior spicco nella vita politica e culturale ungherese della seconda metà del XV secolo. Questi, che in quel periodo "era già conosciuto all'estero come uno dei maggiori esperti e promotori delle ricerche del cosmo e della scienza dell'astronomia" nota, fu dal 1465 al 1472 arcivescovo di Strigonio (Esztergom), il cui castello diventò, grazie alla sua iniziativa, un centro importantissimo degli studi matematici, geometrici e astronomici, e dove approdarono scienziati, letterati e artisti da ogni parte d'Europa.

Lo scritto che accompagnava lo strumento, rimasto inedito fino al 1514 nota, si apre con una dedica all'arcivescovo strigoniense, nella quale Peuerbach lo pregava di accettare il quadrato, che era in legno, ma al tempo stesso gli annunciava l'intenzione di costruirne un altro in metallo, che sarebbe stato più preciso nota. La lettura del trattatello consente di valutare innanzitutto l'enorme salto di qualità che lo strumento del Peuerbach rappresentava nei confronti di quelli descritti dal Pisano o, soltanto vent'anni prima, da Cristofano; il nuovo modello di quadrato permetteva infatti la messa a punto dell'alidada su 120 x 10 posizioni, la qual cosa ne aumentava da cinquanta a cento volte la precisione rispetto agli strumenti precedenti. In secondo luogo, l'opera è dedicata in buona parte alla misurazione delle distanze e non soltanto, come il contenuto della dedica potrebbe far pensare, a quella delle altezze.

Il Quadratum ha inizio con le istruzioni sul modo di fabbricare lo strumento e sul suo impiego corretto. Vengono quindi esaminate le diverse possibilità di misurazione che il quadrato offre: distanza fra l'osservatore e la base non visibile di una determinata altezza (c.61r); altezza di un punto elevato osservato dal piano (c.69v [ma: 73v]); altezza di un punto elevato quando la distanza fra la base di quel punto e l'osservatore non è nota (c.70r [ma: 74r]); altezza di un punto sul pendio di un monte (c.73v [ma: 77v]); altezza di un punto elevato sul quale si trovi l'osservatore (c.74r [ma: 78r]); altezza di un punto elevato quando l'osservatore si trova in un altro punto più o meno elevato di quello osservato (c.74v).

Riguardo alla misurazione delle distanze, Peuerbach scrive (c.60v [ma: 68v]) che in questo tipo di calcolo "facilis potest error incidere -in multis cubitis", e aggiunge anche come ciò non "accidit propter instrumenti defectum, sed parvitatem eius, et visus fallaciam"; egli non si limita cioè a riprendere un particolare già segnalato da Cristofano ("et tanto quanto è maggiore tanto è meglio"), ma ne indica il rimedio: basterà infatti costruire un quadrato più grande perché si possano ottenere misurazioni più precise anche su distanze maggiori. Comunque sia, le indicazioni contenute nel trattato di Peuerbach consentono di affermare che a partire da quel momento fu possibile disporre di uno strumento abbastanza preciso e sofisticato da poter essere eventualmente impiegato anche in sede di rilevamento topografico; prova ne siano, a posteriori, non soltanto gli apprezzamenti di Bartoli e di Santbech, ma anche l'esame di alcuni quadrati cinquecenteschi che si sono conservati fino a oggi nota.

La questione che si pone a questo punto è la seguente: poiché il testo del Quadratum di Peuerbach fu pubblicato soltanto nel 1514, è ugualmente possibile che le conoscenze relative alla fabbricazione dello strumento e al suo impiego abbiano potuto circolare fin dagli anni '60 del Quattrocento in modo tale, e con una tale ampiezza e sviluppo da poterne consentire un uso finalizzato al rilevamento topografico verso la fine del secolo? La risposta a questa domanda è di grande importanza per quanto si affermava al principio di questo studio, e cioè che dall'esame della veduta del de' Barbari scaturisce in chi scrive la convinzione che l'omogeneità con la quale i dati topografici vi sono riportati, nonché la sostanziale unitarietà di quel testo non possano essere ricondotte soltanto a ragioni di carattere estetico, ma debbano essere in qualche modo spiegate facendo ricorso a un elemento tecnico essenziale, capace di darne sufficiente ragione e di giustificarne in pieno la riuscita. È perciò opportuno, prima di tentare una risposta, ripercorrere brevemente alcuni passaggi significativi fra i tanti che costituiscono la fittissima trama delle relazioni scientifiche e culturali del Peuerbach e del Regiomontano con studiosi, scienziati e tecnici di ogni parte d'Europa nota.

La biblioteca di Peuerbach, insieme con i suoi scritti e alcuni strumenti da lui costruiti, fu affidata, al momento della sua morte (1461), all'allievo e collaboratore prediletto, il Regiomontano nota. Questi fu a Roma (1461-67) e a Venezia (1463-64) al seguito del Bessarione (e nella dimora romana del cardinale il Regiomontano poté incontrare personalità quali Paolo del Pozzo Toscanelli e Leon Battista Alberti), e si recò poi a Strigonio, presso il Vitéz, dove rimase fra il 1467 e il 1471. Sia in Italia nota che in Ungheria nota egli si dedicò alla costruzione di nuovi strumenti e a perfezionare l'impiego di quelli da lui già inventati; si ha ad esempio notizia nota che nel 1470 egli compose per il re Mattia Corvino un trattatello sull'uso di uno strumento chiamato "gnomon", ovvero un triplo baculo pensato non per l'osservazione astronomica, ma per la misurazione delle distanze e delle altezze sul piano, e ideato esplicitamente come alternativa al quadrato di Peuerbach. L'anno seguente il Regiomontano si trasferì a Norimberga, e cominciò a organizzare quel suo famoso programma scientifico-editoriale che si interruppe prematuramente con la sua morte, avvenuta nel 1476, a Roma, mentre stava lavorando, su invito del Bressarione, alla revisione del calendario.

Questo episodio è di grande significato per ciò di cui ci si sta occupando in queste pagine; soltanto con l'arrivo in Norimberga del Regiomontano, dei suoi libri e dei suoi strumenti, poté infatti realizzarsi quell'insieme di circostanze concorrenti già indicate come condizioni necessarie perché si potesse passare da un progetto di rilevamento topografico di una città alla sua effettiva realizzazione. Tali condizioni, vale forse la pena di ricordarlo, erano le seguenti: l'elaborazione di una teoria completa e affidabile per i calcoli delle misurazioni, l'esistenza di uno o più strumenti adatti allo scopo, la presenza di artigiani e di tecnici capaci di comprendere le istruzioni dei matematici e di applicarle a uno strumento, l'esistenza di laboratori specializzati in tecnologie di questo tipo, la diffusione di tali conoscenze ed esperienze in un ambiente scientifico-tecnico-artistico interessato a e in grado di ideare e portare a compimento un progetto di quella portata, la disponibilità economica e produttiva a un'impresa così impegnativa. E queste poterono cominciare a realizzarsi nel momento in cui il Regiomontano si trasferì, con tutto il suo patrimonio di esperienza e di conoscenza, nella città tedesca, dove esistevano fin da quegli anni stampatori, cartografì, incisori, tecnici, e un ambiente intellettuale e artistico particolarmente attento a questo genere di interessi. L'avvenimento acquista ancor più rilevanza quando si pensi che proprio da Norimberga partirono, una ventina d'anni più tardi, Anton Kolb, l'editore della pianta di Venezia, e il de' Barbari, che vi si trovava subito prima del 1495 nota.

Non sarà inutile, a questo punto, riesaminare, con l'aiuto della bella sintesi del Gassendi, il contenuto e gli scopi del progetto del Regiomontano, per inquadrarli meglio nel contesto culturale norimberghese della seconda metà del Quattrocento. Racconta dunque il Gassendi notache Regiomontano decise di stabilirsi nella città tedesca - la qual cosa avvenne dopo il 15 marzo e prima del 2 giugno 1471 nota - per diverse ragioni. Innanzitutto perché vicina ai suoi luoghi natali, e in secondo luogo perché, essendo Norimberga quasi al centro dell'Europa nota, egli si sarebbe trovato in una posizione ideale per dare avvio al suo programma editoriale ("ex ea quoquoversum literarum commercium per mercatores facile posset"); inoltre là si trovavano artigiani fra i più qualificati ("in ea artifices fiorent maxime omnium industrij"), in grado di "conficere organa", e cioè di costruire strumenti per l'osservazione. E ancora, poiché la stampa di opere scientifiche costituiva una gran parte del suo programma, il Regiomontano comprese che "si Typographeion ipse sibi haberet, ut quandocumque, et quodcumque liberet posset in lucem emittere".

Il progetto poté realizzarsi grazie all'incontro con il ricco e influente mercante Bernhard Walther (1430-1504), il quale, "vero Astronomiae amore fragrans", "recepit ultro in se impensas et ad conficiendum organa Astronomica, et ad instruendum Officinam Typographicam necessarias". I primi "organa" da loro prodotti in quegli anni furono un "rectangulum, radiumve astronomicum" per misurare le distanze fra le stelle, un astrolabio armillare per calcolare i movimenti dei corpi celesti ed "alia minora instrumenta"; fra questi un torqueto, il cui impiego era già stato descritto dal Regiomontano al Vitéz ai tempi del suo soggiorno strigoniense, un "Ptolemaei metereoscopium" uguale a quello costruito nel 1465 per il Bessarione e, da ultimo, "quaedam alia curiosa potius, quam ad quidpiam serio, solideque observandum utilia", ovvero strumenti diversi per le misurazioni non astronomiche.

Il programma del Regiomontano poté procedere soltanto per pochi anni in quanto, come già detto, la morte colse improvvisa lo scienziato, a Roma, nel 1476. Il contenuto del suo progetto - vuoi di quello editoriale, vuoi di quello scientifico-"industriale" - è comunque noto: egli si proponeva di stampare le opere astronomiche, matematiche e geometriche di autori quali Tolomeo, Euclide, Hypsicle, Teone Alessandrino, Proclo, Giulio Firmico, Antonio da Montolmo, Archimede, Eutocio di Ascalona e di molti altri nota; una "descriptio totius Habitabilis notae, quam vulgo appellant Mappam Mundi", della quale dovevano far parte anche le carte geografiche d'Italia, Francia, Spagna e Grecia; doveva poi seguire l'edizione di diversi trattati di geometria e di scritti vari sui pesi e gli acquedotti, sugli specchi, "atque aliis multorum generum, ususque stupendi". Ma soltanto poche fra queste opere videro i torchi di stampa mentre egli era in vita. L'altra parte del progetto, anche questa rimasta incompleta, prevedeva l'installazione di un osservatorio ("astrarium") nell'"officina fabrili"; là dovevano inoltre trovare posto "alia instrumenta Astronomica ad observationes caelestium: itamque alia ad usum vulgarem quotidianum, quorum nomina longum est recitare".

Alla morte del Regiomontano, il patrimonio materiale e intellettuale che egli aveva lasciato doveva rivelarsi comunque, nonostante l'incompiutezza del suo programma, di straordinario interesse; è infatti noto che il re d'Ungheria Mattia Corvino, che aveva conosciuto il Regiomontano durante il soggiorno di questi presso il Vitéz, ritenne opportuno inviare a Norimberga un suo emissario con l'incarico di acquistare l'intera eredità per trasferirla a Budapest nota. L'emissario era Johannes Dorn, domenicano, uno dei più celebri costruttori di strumenti di quel tempo, lo stesso che aveva collaborato con Peuerbach e Regiomontano alla messa a punto del quadrato geometrico nota. La missione di Dorn non ebbe esito, in quanto il senato di Norimberga si oppose al fatto che la città potesse essere privata di quel patrimonio; intervenne allora il Walther, che nel 1479 acquisì l'intero lascito del Regiomontano.

È interessante a questo punto gettare uno sguardo all'ambiente nel quale questi fatti accadevano e alle personalità di maggior spicco in questo campo che vi operarono nel periodo compreso fra l'arrivo del Regiomontano a Norimberga e la fine del secolo. Le attività connesse con l'osservazione astronomica e la fabbricazione di strumenti erano infatti tanto diffuse e radicate in quella città che si riteneva necessario stipendiare alcuni insegnanti di latino e di greco perché istruissero gli artigiani che non conoscevano quelle lingue nota.

Barnhard Walther non diede seguito all'attività editoriale che aveva cominciato insieme col Regiomontano; egli proseguì tuttavia nella pratica dell'osservazione astronomica, ed effettuò diverse misurazioni relative all'altezza del sole, alle posizioni dei pianeti e alle comete nota. Il celebre cartografo Martin Behaim (1459-1507), che costruì il primo globo terrestre giunto fino a noi, abitava nella casa accanto a quella del Regiomontano, ed è assai probabile che i due si conoscessero nota. A Norimberga viveva e operava Erhard Etzlaub (1460-1532), autore della carta dei dintorni della città (1492) e della famosa Rom Weg, la carta viaria contenente la posizione della bussola per il corretto orientamento nota. Conrad Heinvogel (1470-1517) fu allievo del Walther e autore, verso il 1500, di due carte dei cieli settentrionale e meridionale; egli collaborò inoltre alla composizione delle carte stellari di Johannes Stabius e Albrecht Dürer, che furono pubblicate nel 1515 nota. Dürer (1471-1528), per parte sua, non soltanto aveva frequentato il de' Barbari a Norimberga o a Venezia nel 1495 nota, ma conosceva con ogni probabilità l'opera matematica e astronomica del Regiomontano nota, e dei libri che avevano fatto parte del lascito di questi egli ne acquistò una decina nel gennaio 1523 nota. Johannes Werner (1468-1522), anch'egli astronomo e matematico a Norimberga, si dedicò molto al perfezionamento di strumenti di osservazione quali il baculo o l'astrolabio; ma ciò che più interessa è il fatto che egli fu a Venezia verso il 1497-98. Qui il Werner calcolò la declinazione magnetica di questa posizione geografica, proprio nello stesso momento in cui de' Barbari e Kolb avviavano i lavori per la composizione della veduta nota. Fra il 1490 e il 1493 il celebre atelier di Michael Wolgemut e Wilhelm Pleydenwurff fu impegnato nella realizzazione delle circa duemila xilografie - fra le quali si contano centosedici vedute e profili di città - che illustrano la Cronaca di Norimberga di Hartmann Schedel (1440-1514); questi aveva ben conosciuto il Regiomontano, tanto è vero che di sua mano è la sola attestazione contemporanea sulla morte del matematico nota. Schedel, poi, era di sicuro in contatto con Kolb, il quale contribuì non poco allo straordinario successo editoriale della Cronaca curandone personalmente la diffusione in Italia nota.

Tutti questi elementi - nessuno dei quali di per sé probante - lasciano comunque ben vedere quanto fitta e articolata fosse la rete delle connessioni e delle relazioni culturali, artistiche, scientifiche, tecniche ed editoriali che si ebbero a Norimberga nel periodo 1471-1500. Quelle conoscenze e quei contatti, quel concorso di interessi comuni, quel fondoscena tecnologico e produttivo così ampio e diffuso sono le circostanze concomitanti di carattere intellettuale e tecnologico che si sono indicate come necessarie perché potesse essere concepito prima e realizzato poi un programma cartografico di tipo scientifico quale fu, nell'opinione di chi scrive, quello sotteso alla composizione della pianta di Venezia.

Né viene meno l'ultimo tassello utile a completare il quadro, quello economico-produttivo; la realizzazione dell'impresa, che richiese, come è noto, ben tre anni, comportava di sicuro un investimento finanziario molto ingente, che soltanto un grande mercante come Anton Kolb sarebbe stato in grado di sostenere nota. Il ruolo di questi probabilmente non fu soltanto quello di finanziatore dell'opera; egli poteva infatti contare, da un lato, sullo stretto rapporto che aveva con il de' Barbari fin dal 1495, se non prima nota, e dall'altro sui contatti con il personale tecnico necessario per la realizzazione del progetto. Suo, forse, fu il merito di aver riunito quelle persone e di aver creato le condizioni perché un disegno tanto ambizioso potesse andare a buon fine.

Se quanto si è fin qui detto è servito per dare sostanza all'ipotesi che il de' Barbari e i suoi collaboratori si siano serviti di un sistema di rilevamento a distanza facente capo a una tecnica uniforme basata su di uno strumento di misurazione quale il quadrato geometrico, ciò non è tuttavia ancora sufficiente per comprendere in quale modo la veduta sia stata composta. Ma prima di tentare una risposta a questa domanda, è necessario affrontare brevemente una questione che è stata risollevata dai critici più recenti, e cioè quella relativa alla "fedeltà" dell'opera.

Se questa è infatti stata considerata esemplare da tutti coloro che hanno avvicinato la veduta, alcune analisi e osservazioni di questi ultimi anni hanno riaperto il problema. Bellavitis, dopo aver ricostruito sperimentalmente la griglia cartografica ideale sottesa alla composizione, ne ha infatti messo in evidenza le deformazioni dovute a "distorsioni asistematiche e arbitrarie del campo prospettico" determinate anche, a suo parere, dalla volontà del de' Barbari di enfatizzare, in funzione politica, l'apparato portuale-arsenalesco della città nota. Riprendendo lo spunto da quella ricostruzione, e presentandone un'altra più dettagliata, Schulz ha poi ribadito l'"infedeltà" della pianta, rivelandone i numerosi "errori", le omissioni e le incongruenze nota.

Ebbene, è forse il caso di chiarire una volta per tutte questo punto: nonostante gli "errori" che la veduta contiene, e benché l'ipotesi del Bellavitis eserciti non poca suggestione, bisogna riconoscere che la pianta del de' Barbari è incomparabilmente più "fedele" ed "esatta" di qualsiasi altra pianta o veduta di città del secolo XV e della prima metà del XVI, sia che si tratti dell'immagine di Venezia, che di quelle di altre città europee. Tale fedeltà, che ha la sua ragione nel precipuo intento realistico notadella rappresentazione, è per di più leggibile non soltanto nel disegno topografico della città, ma anche in dettagli come le navi e le imbarcazioni alla fonda nel bacino, e persino in quei particolari sullo sfondo in corrispondenza del Montello e, ancor più finemente, di "seraual", il quale ultimo illustra con assoluta verosimiglianza il profilo montuoso tondeggiante ancor oggi riconoscibile in quella posizione nota. Vi è forse una sola pianta, in questo stesso periodo, che possa essere avvicinata alla veduta del de' Barbari per la precisione della trascrizione topografica, e cioè la pianta icnografica di Imola composta da Leonardo da Vinci nel 1502; ma di questa si sa che fu eseguita, per quel che riguarda la topografia urbana, mediante un rilevamento planimetrico condotto strada per strada, mentre metodi di misurazione a distanza furono impiegati per il solo calcolo delle distanze fra la città e i luoghi circostanti nota.


È forse chiaro a questo punto, sulla scorta di tutto quanto si è fin qui detto e documentato, che l'ipotesi di un'origine strettamente cartografica della pianta del de' Barbari non può essere accantonata troppo in fretta. E fra tutti gli elementi prodotti a sostegno di questa ipotesi ve n'è uno che appare assolutamente decisivo, e cioè l'esistenza di uno strumento di misurazione sufficientemente preciso e affidabile da poter essere impiegato anche in sede di rilevamento topografico, ovverossia del quadrato geometrico. Non è purtroppo dato, allo stato attuale, di sapere quali caratteristiche costruttive potrebbe aver avuto lo strumento (o gli strumenti, giacché si sarebbero potuti impiegare insieme al quadrato altri apparecchi sussidiari) adoperato dal de' Barbari e dai suoi collaboratori; è comunque possibile tentare di ricostruire il procedimento seguito per la realizzazione della veduta, tenendo tuttavia presente non soltanto il fatto che lo strumento era ancora sperimentale, ma che ugualmente sperimentale era il prodotto al quale si mirava.

La semplice ma efficace tecnologia del quadrato geometrico rappresentò un enorme salto di qualità nella tecnica delle misurazioni rispetto agli strumenti precedenti. Con un quadrato modificato espressamente per quello scopo, perfezionato e tarato da tecnici specializzati, sarebbe stato possibile, da un punto di vista elevato come ad esempio il campanile dell'isola di S. Giorgio, effettuare il rilevamento topografico di Venezia in un modo forse non troppo diverso da quello che si cercherà ora di descrivere:

1) misurazione: rilevamento delle distanze - e da queste, in modo derivato, delle posizioni - non soltanto dei campanili e di altri edifici più facilmente distinguibili, bensì di una serie assai più completa di punti, quali ad esempio palazzi, complessi edilizi e architettonici; traccia di alcuni canali (in particolare, quelli il cui corso è orientato in direzione S-N); posizione di alcuni spazi aperti più accessibili alla visuale (piazza S. Marco, alcuni campi, Arsenale); perimetro esterno di parte della città; topografia pressoché completa della Giudecca; e inoltre le altezze dei campanili, delle chiese e dei palazzi di grande dimensione. Sarebbe forse stato possibile, in questo modo, determinare anche la dimensione, o quanto meno la larghezza, di non poche masse architettoniche;

2) pianta: i dati raccolti in questo modo sarebbero stati via via trasferiti in pianta ortogonale; si sarebbe così ottenuta una vera e propria mappa costituita da un diagramma cartografico ricchissimo di indicazioni topografiche;

3) prospettiva: scorcio della pianta, con tutte le indicazioni in essa riportate, secondo le regole della prospettiva artificiale, con un'elevazione tale da individuarvi i contorni parziali di molte insulae e di poterne leggere la composizione urbanistica;

4) disegno: disegno architettonico di tutti gli edifici, effettuato sia dall'alto dei campanili sia dal suolo; in questa fase, e sulla sicura guida delle numerose indicazioni topografiche già presenti, si sarebbe anche completato il disegno di tutte le parti non sottoposte precedentemente a rilevamento in quanto o troppo difficili da misurare o non visibili dalla posizione prescelta (canali, parti delle costruzioni più vicine al suolo, perimetro degli spazi aperti, ecc.);

5) xilografia: trasferimento del disegno sui legni, incisione e stampa; il trasferimento su legno potrebbe essere stato eseguito con un metodo che garantisse la massima precisione, e cioè: il disegno, incollato a faccia in giù sulla tavola da incidere, viene fatto trasparire mediante l'applicazione di una vernice, e quindi inciso sul verso (la qual cosa provoca la distruzione del disegno stesso) nota.

Questa l'ipotesi, che si cercherà ora di verificare - in attesa di nuovi apporti documentali - alla luce delle osservazioni critiche di Schulz, il quale più di ogni altro ha cercato di invalidare ogni supposizione circa l'origine cartografica della pianta del de' Barbari. Si tenga però presente che Schulz non faceva alcun riferimento al quadrato geometrico, alla sua tradizione e al suo sviluppo; di conseguenza egli riteneva, e a ragione, che il rilevamento a distanza di una topografia tanto complessa come quella di Venezia non avrebbe avuto alcuna possibilità di essere praticato con la tecnica da lui indicata come la più precisa che ci fosse ai tempi del de' Barbari, e cioè la misurazione a mezzo della scala d'ombra dell'astrolabio nota.

Uno degli argomenti che appaiono più forti nella critica di Schulz - ripreso anch'esso da precedenti osservazioni di Bellavitis nota - è il seguente: la pianta icnografica eventualmente ottenuta mediante la trascrizione dei pochi dati topografici (campanili) rilevabili con l'astrolabio, e completata facendo ricorso alla esperienza visiva e alla memoria, egli dice, avrebbe poi dovuto essere scorciata secondo le regole della prospettiva artificiale. Ma se così fosse stato, continua Schulz, la riduzione delle masse territoriali dal primo piano verso lo sfondo dovrebbe procedere secondo un fattore costante. E invece così non è, in quanto le distorsioni prospettiche appaiono asistematiche e arbitrarie nota.

L'ineccepibile osservazione perde tuttavia molta della sua efficacia non appena si ammetta che le distorsioni contenute nella veduta non siano dovute alla prospettiva, bensì alla topografia; ciò significa, in altre parole, che gli "errori" furono introdotti nella pianta non tanto nel momento in cui ne fu effettuato lo scorcio, bensì prima, durante la fase di misurazione e rilevamento. Per quanto innovativa - e anzi, forse proprio perché innovativa e sperimentale - la tecnica del quadrato geometrico era infatti pur sempre primitiva, ed è perciò assai ragionevole ritenere che quegli "errori" si siano verificati in fase di misurazione. Questa affermazione può essere sottoposta a riprova grazie a un'altra osservazione di Schulz: notando come le distorsioni della veduta aumentino progressivamente mentre si procede da est verso ovest, egli conclude che ciò si deve al fatto che Jacopo, iniziata la raffigurazione dalla parte orientale della città e trovatosi poi a corto di spazio, ha dovuto di necessità comprimerla nella parte occidentale, col risultato di provocarvi quelle distorsioni.

A parte la scarsa probabilità - e credibilità - di uno sbaglio così grossolano in un'opera tanto raffinata, si può comunque osservare quanto segue: la messa a punto dell'alidada del quadrato geometrico lungo il lato dello strumento avrebbe di certo avuto efficacia e precisione assai maggiore nel rilevamento della parte orientale e di quella centrale della città, e ciò per diversi motivi. Prima di tutto perché quelle parti sono più vicine al punto di osservazione prescelto, la qual cosa si traduce in movimenti angolari più ampi dell'alidada, e perciò proporzionalmente più precisi. In secondo luogo per la presenza, a est e al centro, di grandi spazi aperti (Piazza S. Marco, Arsenale, terreni sgombri) che pongono minori problemi di misurazione. Infine, la maggiore difficoltà di descrizione topografica lungo la direzione S-W e S-NW, causata dalla più fitta densità dell'agglomerato urbano in quelle parti della città. In particolare, i punti di maggiore distorsione cartografica della pianta sono quelli - lo si rileva facilmente dalla simulazione di Schulz nota - che coincidono con l'estrema periferia occidentale e nord-occidentale di Venezia, e cioè quelle parti che risultano più densamente edificate in un'osservazione scorciata come quella che si ha dall'alto del campanile di S. Giorgio. È chiaro come alla maggiore lontananza e densità urbanistica corrispondano, in fase di misurazione, spostamenti sempre più piccoli dell'alidada, e cioè induzione d'errore, anche macroscopico, a seguito di variazioni minime sommate a minime variazioni.

È forse significativo a questo riguardo che uno dei punti di più netta deformazione topografica, quello coincidente all'incirca con l'area di Santa Marta, riacquisti d'un tratto maggiore precisione descrittiva in corrispondenza dell'estrema lingua di terra - facente oggi parte della zona portuale - che si estendeva lungo l'attuale Canale della Scomenzera; e ciò poteva essere dovuto al fatto che la visuale in direzione di quel lembo di città proteso verso la laguna era più sgombra che non quella della parte adiacente. L'osservazione di quel punto era cioè assai meno impedita dall'infittirsi delle costruzioni, che moltiplicava l'effetto di schiacciamento prospettico che si aveva orientando il quadrato verso Santa Marta.

Vi è un altro punto sul quale Schulz insiste, e cioè la presenza nella pianta di molti errori, e le omissioni che vi si riscontrano. Egli nota infatti la mancanza di alcune calli in diverse zone della città, la semplificazione in alcuni casi drastica della descrizione urbanistica, le deformazioni nette subìte da alcuni particolari architettonici nota. Schulz si serve di tali argomenti per rafforzare la sua ipotesi, contraria all'origine cartografica della pianta, ma non è difficile servirsi degli stessi argomenti per sostenere l'opposto.

Se infatti, come egli afferma, il disegno topografico fosse stato effettuato da punti di vista diversi (i campanili), fino a ottenere un insieme di vedute parziali che furono poi assemblate (procedimento che appare di una difficoltà straordinaria), non ci si spiega come tanti dettagli di non poco conto abbiano potuto sfuggire all'attenzione di chi trascriveva i dati stando sul luogo. Schulz si avvede di questa contraddizione, ed è costretto allora a formulare l'ipotesi di un modello notasul quale i disegnatori si sarebbero basati per trasferirvi i dati topografici. La relativa rigidità di un simile procedimento - un modello di quel genere non avrebbe sopportato modifiche eccessive - si sarebbe tradotta in un inevitabile sacrificio della precisione, fino a provocare l'omissione di alcuni particolari topografici ai quali non si riuscì a far posto nel disegno.

Schulz suggerisce ancora che tale modello non doveva essere troppo dissimile da quella pianta della città composta per il doge Ordelaffo Falier (1102-1118) da un certo "Hellia Magadizzo meserador da Milano", e che si conosce oggi in tre copie, la più nota delle quali è contenuta nella Chronologia Magna (1346) di fra Paolino da Venezia nota. L'osservazione di questa pianta trecentesca rivela tuttavia che uno dei punti di più vistosa deformazione topografica riscontrabile nella veduta del de' Barbari - e cioè il tratto di città comprendente le attuali zone di San Tomà, Frari, Tolentini, Fondamenta di Santa Croce, compresse dall'ansa troppo pronunciata del Canal Grande - veniva invece anticamente rappresentato in modo assai più disteso e perciò più conforme al vero. Ora, poiché si tratta in questo caso di un elemento macroscopico, è difficile pensare che sia stato un modello di quel genere a servire al de' Barbari e ai suoi collaboratori. Essi disponevano, è vero, di un modello, ed è alla rigidità di tale modello che vanno con ogni probabilità ascritti alcuni degli errori, delle omissioni e delle deformazioni che la veduta presenta. Ma quel modello non era nient'altro che il diagramma cartografico che essi stessi avevano costruito in base alle misurazioni effettuate con il quadrato, e a quello essi si attennero.

Se tutto quanto si è detto fin qui è servito per dare sostanza all'ipotesi di un'origine cartografica della pianta, tuttavia ciò non basta ancora per rispondere a una domanda che non può essere evitata: posto che la veduta sia il risultato del procedimento di misurazione descritto, come mai non vi sono vedute contemporanee a quella del de' Barbari, e nemmeno posteriori, che abbiano una resa altrettanto alta e per le quali si possa supporre un procedimento dello stesso genere? La risposta a tale domanda deve di necessità articolarsi su piani diversi, e richiede che il problema venga inquadrato in una prospettiva culturale più ampia - la qual cosa ci si ripromette di fare in altra occasione. Basterà, per ora, indicare i sentieri lungo i quali la risposta va cercata, perché essi conducono in territori assai distanti l'uno dall'altro.

Il primo punto riguarda le difficoltà dell'impresa, che non furono soltanto di carattere tecnico. Fu infatti necessario che a quest'opera lavorassero a stretto contatto i costruttori degli strumenti e i tecnici capaci di impiegarli, i misuratori in grado di interpretare i rapporti numerici ottenuti e di riportarli sul foglio come dati cartografici, gli incisori incaricati di intagliare i legni, i tipografi attrezzati per trattare matrici di tali dimensioni, e tutti costoro dovevano essere guidati sia da una personalità artistica, come quella di Jacopo, che potesse riassumere l'intero processo in un'immagine compiuta e coerente, sia da una volontà e da una potenzialità produttiva come quelle che Anton Kolb poteva impersonare. Rimettere insieme tante persone e competenze così specifiche non doveva essere impresa molto facile né conveniente per produttori (leggi editori) di capacità ordinarie, soprattutto se si pensa al tempo (tre anni) che il completamento dell'opera richiese.

Il secondo punto porta a riflettere ancora per un momento sul fattore tecnico. L'impiego del quadrato presentava infatti difficoltà nuove e appartenenti a un ordine di complessità, nello specifico dell'applicazione cartografica, assai spinto; e ciò sia, come si è già detto, per la necessità di compresenza e di concorso di competenze non generiche e diverse, sia per l'articolazione del procedimento in tante fasi strettamente connesse una con l'altra. La tecnica del quadrato, che poteva in questo senso dirsi sperimentale, oltreché innovativa, richiedeva un investimento intellettuale, produttivo ed economico sproporzionato rispetto al risultato che si poteva ottenere con la sua applicazione in sede di misurazione topografica complessa: si badi bene, ciò non significa svalutare o sottovalutare la qualità e la riuscita della pianta del de' Barbari, bensì considerare l'"eccesso" di informazioni in essa vertiginosamente dispiegate in rapporto alle informazioni contenute nelle altre vedute di città di quello stesso periodo. Da questo punto di vista la pianta propone una situazione che si è verificata innumerevoli volte nella storia dello sviluppo scientifico e tecnologico occidentale, quando un qualsiasi procedimento avanzato si rivelava non economico in quanto non garantiva il ritorno pieno dell'investimento effettuato. Si pensi ad esempio all'esplorazione della luna: dopo i primi lanci non si sono più inviate sul satellite capsule con equipaggio umano, ma soltanto capsule automatiche, e ciò per il semplice motivo che la presenza di esseri umani a bordo non dava risultati che potessero compensare in modo sufficiente il grande surplus di difficoltà che tale fattore umano comportava in tutte le fasi delle missioni.

Il terzo punto discende direttamente da quanto si è appena detto, e propone il confronto fra il lavoro del de' Barbari ed altre vedute di città di quel periodo. Si badi bene che se ora si insiste sul termine veduta in contrapposizione a pianta, ciò è perché quest'ultimo tipo di rappresentazione topografica segue un proprio itinerario distinto, legato essenzialmente alla tecnica del rilevamento planimetrico, troppo difficile da applicarsi, come è stato osservato, nel caso della Venezia di fine Quattrocento.

Considerando alcune delle vedute che appaiono più "evolute" fra quelle che Schulz ha messo a confronto con la veduta di Venezia, è possibile osservare innanzitutto come la funzione iconica della rappresentazione, derivante dalla tradizione tardoclassica e medievale (dalla Tabula Peutingeriana in poi), abbia in esse ancora una grande parte, malgrado lo sforzo realistico che è possibile apprezzare in esempi quali la Veduta con catena del Rosselli nota, la Veduta di Roma di Mantova nota, la Pianta archeologica di Roma di Alessandro Strozzi nota, la veduta di Napoli nel Ritorno a Napoli nel 1464 della flotta aragonese vittoriosa nota, la Veduta di Augsburg di Hans Weiditz notae la Veduta di Genova di Anton van den Wyngaerde nota. Tutte queste, composte nella seconda metà del Quattrocento e nella prima del Cinquecento, appaiono come il risultato di un processo di semplificazione iconica che si riscontra particolarmente, in modo alternato e combinato, in tre caratteristiche principali: il contorno (le mura), la monumentalità e lo schema urbano.

L'immagine di città viene cioè espressa in questi esempi, quando li si metta a confronto con la veduta del de' Barbari, come citazione, ora più e ora meno ricca e articolata, ovvero come segno (espanso) di riconoscibilità, e perciò ancora come icona, nella quale vi è cesura sia nell'articolazione dei raccordi interni (edilizia non monumentale rappresentata, nel migliore dei casi, in modo simbolico), sia nel rapporto fra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori dalla città (in quanto la precisione descrittiva scende spesso e bruscamente di livello non appena al di là del confine della cinta muraria).


Se si considera ora come siano stati risolti quegli stessi elementi nella veduta di Venezia, non si può non notare, per prima cosa, che massimo è stato qui lo sforzo di definire il contorno nel modo più preciso possibile. Si trattava tuttavia di una impresa niente affatto semplice, e ciò per diverse ragioni: innanzitutto, com'è ovvio, per la mancanza di un perimetro artificiale e regolare (le mura) che fosse percettibile sia dal suolo (quanto meno nel suo orientamento), sia dall'alto di un campanile o, meglio ancora, dalla sommità di qualche rilievo circostante (come nel caso di Roma, Firenze, Napoli). In secondo luogo perché la frontiera, sia quella esterna sia quelle interne di alcune insulae, non era, ai tempi del de' Barbari, definibile con certezza o piuttosto, per dirla con Bellavitis, era "in movimento su terreni in corso di bonifica" nota.

Ebbene, è proprio in presenza di una simile incertezza che si assiste forse, nella veduta veneziana, al primo esempio di definizione "scientifica" della forma di una città. Ma poiché Venezia non ha mura di cinta che ne disegnino la silhouette, ciò si deve al fatto che l'articolazione dei raccordi interni lungo tale frontiera - casa dopo casa, palazzo dopo palazzo, insula dopo insula - non incontra cesura alcuna: il discorso, lungo il confine esterno come nelle parti interne, si articola qui in modo continuo, intensificando qua e là l'accento tonico ma non mutando la sua sostanza. L'omogeneità del tessuto, resa possibile dalla precisione topografica della descrizione, non conosce strappi né allentamenti fino al suo orlo, quello sfondo montuoso che è rappresentato, lo si è visto nell'esempio del Montello e di "Seraual", con tanto nitida precisione. Venezia ha poi un vantaggio su Roma, la città di sicuro più raffigurata nella seconda metà del Quattrocento, in quanto non deve pagare alcun tributo all'antico. Non vi è in Venezia monumentalità esemplare da far risaltare; anzi, Venezia è il luogo del moderno per eccellenza, è la città che non ha ancora finito di rapprendersi nella forma del suo gotico così longevo, ma che sta tuttavia per riaprirsi ancora alle nuove formulazioni della renovatio urbis.

Si è ormai lontanissimi, giunti al punto in cui l'origine e la natura cartografica della veduta di Venezia sembrano ipotesi irrinunciabili, dalla definizione di "geografia moralizzata" nella quale Schulz vorrebbe includere anche questo capolavoro. Se vi è in esso enfasi retorica, questa è apprezzabile soltanto nei suoi particolari esplicitamente pittorici - il trionfante Mercurio col caduceo, il Nettuno domatore del mare, i venti complici dell'umano - i soli elementi dell'opera, si badi, ai quali si debba ascrivere la paternità unica del de' Barbari. Non appare infatti enfatica l'altezza eccessiva di alcuni campanili, segnalata da Schulz; questo elemento ha una precisa funzione percettiva, in quanto consente all'occhio che percorra la veduta di posarsi, di trovare più facilmente punti di riferimento nel labirinto delle costruzioni prima di ripartire ad esplorare, e in tal senso non si rileva in esso alcuna valenza encomiastica.

Sotto tutti questi aspetti la veduta del de' Barbari si presenta come un prodotto del più pieno Rinascimento, capace cioè di superare per un momento, nella sua tensione creativa e comunicativa, lo scarto fra l'arte della quale è intrisa e la scienza che l'ha resa possibile. Ma è anche, in ciò, e in questo particolare genere di rappresentazioni, un unicum, che contiene in se stesso il proprio inizio e la propria fine. "Non pol essere proporcione senza numero, né pol essere forme senza giometria", scriveva il de' Barbari nel suo indirizzo su "la ecelentia de pitura" nota: questa formula artistica non troverà tuttavia più applicazione in ambito cartografico. Alle città dipinte non si chiederà di essere "scientifiche", né alle piante - che diventeranno ben presto tanto importanti, in quanto molto più ricche di informazioni utili, per la vita civile, per la politica e per la guerra - si domanderà più d'essere pitture eccellenti.